Presse

Au temps où les Arabes dansaient…

ResMusica

17 mai 2016

Le chorégraphe tunisien Radhouane El Meddeb poursuit son chemin dans la danse en France, avec une reprise de sa création 2014 : Au temps où les Arabes dansaient… pièce politique et sensuelle.

Tunisien vivant en France depuis 20 ans, Radhouane El Meddeb est passé par le théâtre avant de se tourner vers la danse. On le sent dans la dramaturgie de ce quatuor masculin, qui déconstruit d’abord les gestes et les postures de la danse orientale avant de les laisser éclater dans toute sa sensualité.

Le titre (à l’imparfait) et le propos de la pièce lui donnent une portée politique : les arabes, ce ne sont pas seulement des hommes pieux et rigoureux, qui refusent musique et distraction, mais aussi des hommes (et des femmes) qui aiment danser, s’exprimer avec leur corps, leur bras et leur ventre, parfois jusqu’à la transe.

Le spectacle peut aussi se regarder en miroir du spectacle A partir d’une histoire vraie de Christian Rizzo, regard d’un occidental sur des hommes orientaux. Radhouane El Meddeb porte, lui, le regard d’un oriental sur ses pairs, nourri des films et des divertissements qui faisaient le bonheur des soirées tunisiennes des années 40 aux années 70.

Ces extraits de films, présentés de façon stylisée en fin de spectacle, éclairent d’un œil nouveau les ondulations lascives et les déhanchements de ces hommes au torse nu et aux mains ouvertes.

Delphine Goater

SERGIO TROMBETTA

Ottobre 2015

LA DANZA DEL VENTRE? SOLO AL MASCHILE

FIRENZE. Quattro ragazzi arabi a torso nudo fanno la danza del ventre, scuotono le anche, imprimono movimenti ondeggianti ai muscoli addominali, disegnano arabeschi con le braccia. Ciascuno per conto suo, oppure a due a due, con movimenti sensuali, quasi a mettersi reciprocamente in imbarazzo imponendo la propria capacità di seduzione. Ma non c’è niente di parodistico, pittoresco; non è uno spettacolo “en travesti” “Au temps où les arabes dansaient…” (quando gli arabi danzavano) del tunisino (ma da tempo attivo in Francia) Radhouane El Meddeb, andato in scena al Cango di Firenze per il festival “Umano”.

È una meditazione seria, ma di grande fascino e decisamente spettacolare, sul ruolo del corpo maschile nella cultura araba, sulla emozione, la dolcezza e l’accettazione da parte dei maschi della parte femminile che ciascuno porta in sé.

E in più è uno sguardo nostalgico verso i tempi in cui la danza del ventre aveva pieno diritto di cittadinanza nei paesi del Nord Africa e le danzatrici di questo stile nato in Egitto erano le protagoniste di polpettoni cinematografici debordanti sensualità, Kitsch, in scenografie di cartapesta. Come emerge dal montaggio di spezzoni di film che vanno dagli anni 40 ai 70. Quasi a rimpiangere un mondo lontano, forse più libero e dove la sessualità era meno repressa.

I quattro giovani si presentano in scena muovendosi prima sul silenzio. Non tutti hanno un fisico da danzatore. I loro gesti sono prima appena percettibili, per poi svilupparsi in sequenze ora più ampie ora più trattenute. Se il linguaggio è tratto dal folklore e della tradizione, l’uso che ne fa El Meddeb è pienamente contemporaneo, quasi depurato da ogni intento aneddotico. Ai movimenti delle anche e del ventre si alternano ora una marcia con un tacchettare insistente come un taconeo flamenco, ora rotazioni con le braccia aperte come fanno i dervisci. Non manca un momento di preghiera quando se ne stanno inginocchiati sui tappetini, disposti al fondo del palco unico elemento scenico.

A questa danza maschile, sincera e scarna, si contrappone quella femminile sovraccarica di orpelli, veli, costumi dorati, gioielli tintinnanti degli spezzoni filmati che occupano la parte finale dello spettacolo. Scene da musical con la danzatrice sola in una scenografia che ricorda la moschea di Cordoba. Protagoniste di film di ambientazione contadina con danze sull’aia. Seduttrici da tabarin fra signore ingioiellate e signori in smoking, con baffi e rilucenti di brillantina. El Meddeb prosegue in quella meditazione seria e nostalgica, ironica e queer sulle proprie radici incominciata con il brano richiestissimo “Je danse et vous en donne à bouffer” (danzo e ve ne do da mangiare) assolo che interpreta personalmente e durante il quale, danzando, cucina un couscous che al termine serve agli spettatori.

In arrivo un nuovo assolo sulle “Variazioni Goldberg” che secondo le sue intenzioni sarà un ricordo e un dialogo danzato con padre tunisino scomparso: la prossima estate al Festival di Montpellier.

Sergio Trombetta 

RECENSITO

Settembre 2015

ALLA 29ª EDIZIONE DI MILANOLTRE AL TEATRO ELFO PUCCINI È DI SCENA “AU TEMPS OÙ LES ARABES DANSAIENT…”

Il 25 settembre in prima nazionale per “Francia in scena”, il coreografo franco/tunisino Radhouane El Meddeb e la sua Compagnie de Soi, nella cornice del Teatro Elfo Puccini, nell’ambito della 29ª Edizione del Festival MilanOltre, hanno presentato “Au Temps Où Les Arabes Dansaient…”, un tributo all’Arabia degli anni d’oro, quella del cinema degli anni 40 ai 70 in uno spettacolo – danza coraggioso, per soli quattro interpreti maschili. Ciascuno, con stili diversi e personalissimi, racconta la danza dai primordi ai giorni nostri, in un percorso in crescendo.

Originariamente pensato per un progetto di cabaret, col susseguirsi di varie vicende politiche, il concept di questa coreografia si è mosso su passi più radicali, proprio perché a Radhouane El Meddeb risultava difficile mettere in scena un pezzo da cabaret per celebrare un’Arcadia scomparsa. Gli arabi, difatti, hanno vissuto a lungo i ritmi dei film degli anni ’40, ’50, ’60 e ’70, fatti di magia ed atmosfere fittizie.

Gli attori hanno cantato, ballato, sui grandi schermi delle sale cinematografiche e nei programmi televisivi per le famiglie. Senza giudicare e senza alcun veto, hanno guardato la realtà brillante, dei protagonisti della commedia, seguendo i loro drammi e le loro emozioni, cantandone le canzoni. Ed ecco che la danza del ventre prende il sopravento nel momento cruciale del film o spettacolo, come se ne fosse il perno. Il ventre e l’ombelico rappresentavano il punto dove si incrociavano sguardi sedotti. Ma quelli, sembra volerci dire, il coreografo, sono anni lontani. La realtà oggi è un’altra, in quell’ombelico, strano oggetto del desiderio, sembra preannunciarsi il vortice del caos, dello scompiglio socio-politico, la violenza è entrata prepotentemente in quel mondo finto, a sancire la fine di un’epoca di illusioni. E “Au temps où les Arabes dansaient…” vuole essere la proiezione lontana ed un pizzico nostalgica di quei canti e balli, espressa nell’esplosione di corpo e anima.

Il ritmo è incalzante e tiene desta l’attenzione del pubblico. Come corpi ebbri, le 4 presenze maschili ondeggiano, quasi con la sensualità di un corpo femminile e peccaminoso. Ed è proprio con questa inversione di ruoli che Radhouane El Meddeb risulta provocatorio, audace ed istintivo. D’altra parte Radhouane El Meddeb, ballerino e coreografo, ha mosso i primi passi nella danza orientale, raccogliendo intorno a sé un gruppo di uomini. E in “Au temps où les arabes dansaient…”, i quattro protagonisti danzatori, appaiono felicemente assillati dal cinema arabo degli anni ’50 e ’70. Uno spettacolo originale, conturbante e provocatorio, dove lo spettatore assiste alla rottura degli schemi della danza tradizionale.

Adele Labbate

GIORNALE DELLA DANZA

Settembre 2015

Una finestra provocatoria e ardita per l’inaugurazione della sezione “Francia in scena” al Festival MilanOltre, presso il Teatro Elfo Puccini, il quale ha proposto in prima nazionale la “Compagnie de Soi” del poetico coreografo franco/egiziano Radhouane El Meddeb con lo spettacolo dal titolo Au Temps Où Les Arabes Dansaient…

Un omaggio all’Arabia e a un periodo fertile della propria cinematografia in un lasso di tempo che ha spaziato dagli anni ‘40 agli anni ‘70.

Quattro straordinari e audaci interpreti maschili: Philippe Lebhar, Rémi Leblanc-Messager, Youness Aboulakoul e Arthur Perole hanno coralmente infuso passione a un plateale corteggiamento, grazie a un gioco di movimenti eleganti, ampi e dolci, in cui la danza è stata resa fluida per mezzo del coinvolgimento armonico del corpo in sintonia con un antico rito di rara bellezza stilistica.

Dopo un inizio claustrofobico, ma necessario, in cui la ripetitività dei movimenti e dei gesti quasi maniacali, in un silenzio assordante, ha trasmesso agli astanti un senso di soffocamento come contraltare al decadimento di un periodo d’oro dove albeggiava il ritmo magico del cinema facendo sognare intere generazioni, il tutto si è pian piano ribaltato e l’ombra femminea si è impossessata dei corpi maschili danzanti rivelando una sorta di “cerimonia”, di un culto ipnotico in cui un incalzante e incessante palpito arricchito da fiabesche e travolgenti sonorità arabe, hanno trasmesso all’uomo e al proprio bacino (l’autentico protagonista della serata) uno specchio inteso come significato alla rinascita in un un’onirica visione dove il bacino ondeggiante si è eletto a “culla del nuovo nato”.

La musica stessa ha creato suggestivi effetti rilassanti e al tempo stesso rallegranti. Il ventre maschile si è assurto a “centro del mondo” riportandoci in un passato antico, in cui i movimenti sono apparsi sinuosi in un crescendo di sfumature e cerchi sempre più veloci tanto da trasformarsi in ancestrali e potenti vibrazioni.

Da sempre si narra che la danza del ventre non nasca come spettacolo di seduzione per l’uomo, ma bensì si racconta che essa venisse danzata in cerchio, intorno alla donna gravida dalle altre donne presenti, cosicché la partecipazione “simbolica” alla nuova vita fosse un momento di propiziazione collettivo.

Radhouane El Meddeb, con maestrìa e creatività, ha tratteggiato e pennellato un quadro volutamente ardito in cui gli atteggiamenti danzati hanno suscitato desiderio fisico, interesse sensuale per ridare “vita”, mediante anche ad antiche ma mai scolorite proiezioni in bianco e nero, “il sogno del cinema” con un finale in cui il “cuore della musica orientale” ha battuto accenti distensivi e pacificanti e, allo stesso tempo, gioiosi permettendo al pubblico di entrare in totale sintonia con gli artisti.

Una serata dove le espressioni catturate sui volti dei danzatori hanno generato nuove dinamiche coreografiche dal sapore agrodolce ma con la giusta consapevolezza di aver assistito a una pura “danza della felicità”.

Michele Olivieri 

L’ALSACE

Janvier 2015

Etat de grâce aux Vagamondes

Le chorégraphe tunisien Radhouane El Meddeb, qui avait enchanté le public de la Filature il y a deux ans avec son hommage amoureux à l’art de préparer le couscous, revient aux Vagamondes avec une nouvelle création d’une force rare. Au temps où les Arabes dansaient… , premier rendez-vous du festival vendredi soir à l’Espace Tival à Kingersheim, est un manifeste pour la liberté qui se joue des codes et des tabous.

Le ventre, l’épicentre
Le chorégraphe célèbre la beauté de la danse orientale et l’âge d’or du cinéma égyptien et brouille les genres en confiant à quatre corps masculins la gestuelle lascive de cet art réservé aux femmes, qui a pour épicentre le ventre, les hanches, le bassin des femmes, symbole du désir sexuel et de l’enfantement.

S’il s’agit d’une invitation à se souvenir d’une époque où l’Orient idéalisé était synonyme en occident de rêve, de Mille et une nuits, de paradis sensuel épicé, la pièce chorégraphique d’El Meddeb, construite âprement, est aussi un long cri, d’autant plus assourdissant que ces corps, la plupart du temps, dansent dans le silence. Un silence propice à concentrer toute l’attention sur chaque tension qui se joue, la concentration et la souffrance, l’exigence inouïe de la performance. Le regard est happé par cette lente montée en transe rythmée par les respirations de plus en plus saccadées des interprètes. Une chorégraphie qui part de l’infiniment petit, de mouvements à peine perceptibles, pour reconstituer peu à peu le puzzle d’un langage complexe, fait de déhanchements, d’ondulations douces. Des vagues successives où les danseurs évoluent dans une semi-pénombre, en fond de scène, ou sous le feu des projecteurs, à moins d’un mètre du premier rang des spectateurs. On est à la fois submergé par ce mélange de jubilation, de gravité et de malice, ému par la beauté du chant des cops, l’intensité de la construction dramatique, profondément interpellé par la pertinence de concentrer là, précisément ou se tissent les émotions humaines, à l’endroit du ventre, nos pensées bousculées.

Frédérique Meichler

TELERAMA SORTIR

Février 2014

Il ose et en avant ! Le danseur et chorégraphe Radhouane El Meddeb, après une carrière d’acteur, se risque sur le terrain de la danse orientale et rassemble autour de lui un groupe d’hommes. Autant dire que l’initiative ne manque pas de sel, encore moins de subtil esprit de provocation qui fait, entre autres qualités, la singularité de cet artiste engagé. Intitulé « Au temps où les Arabes dansaient, cette pièce pour quatre interprètes, joyeusement obsédée par le cinéma arabe des années 50 et 70 et leur atmosphère de fête délicieusement artificielle, est à découvrir.

Rosita Boisseau

DANSERCANALHISTORIQUE

Février 2014

Ce que les Arabes s’autorisent à danser
Cette fois avec la danse du ventre, Radhouane El Meddeb cultive toujours une proximité si extrême avec les thèmes de la culture qui lui est chère, qu’il finit par en faire de troublants objets d’altérité.

Avec les hommes arabes, ça n’est pas évident. On leur prêtera volontiers quelque virilité ostentatoire et farouche. Mais s’ils se mettent à danser, une ivresse d’ondulations les gagne, qu’on peut trouver féminine, voire lascive. Certes. Mais pas le bassin. Le tabou paraît ici majeur : il appartient aux femmes, à elles seules, de se permettre d’investir cette partie du corps, porteuse de toutes les charges symboliques de la génitalité et de la fécondité.
C’est dans cette stricte répartition des registres sensuels, que Radhouane El Meddeb vient jouer les perturbateurs dans sa pièce Au temps où les Arabes dansaient. Une pièce qui semble avoir glissé ailleurs et au-delà de ce que son titre annonce. On s’approcherait mieux de son contenu en énonçant Ce que les Arabes s’autorisent à danser.
Le chorégraphe tunisien a une façon qui n’appartient qu’à lui, de cultiver un rapport d’extrême proximité intime et émotive avec des thèmes issus de son univers culturel, au point d’y installer en fait l’embarras savant d’une distance paradoxale et féconde. Traitant du personnage mythique d’Oum Kalthoum, sa précédente pièce Sous leurs pieds, le paradis, portait déjà cette qualité à un paroxysme.
Pour se saisir à présent de la danse orientale du bassin, Radhouane El Meddeb procède à deux exclusions radicales – plus une troisième, non la moins troublante, qu’on n’évoquera qu’à la fin de cet article. D’emblée, il élimine la musique, pendant toute une large part majoritaire de la durée de la pièce. Il élimine aussi la présence féminine.
Ce sont quatre hommes qui interprètent Au temps où les Arabes dansaient ; quatre hommes qui s’adonnent à une danse de leurs bassins, donc en pleine transgression du tabou. De cela, la figure féminine est-elle réellement absente ? Elle reviendra à l’écran en fond de scène, absolument figure, icône aux atours mirifiques de star du cinéma égyptien, chimère sublime nimbant tous les esprits, sans même qu’elle ait donc besoin d’une présence effective.
Mais que dansent ces hommes plus exactement ?
C’est tout sauf simple.
Ils dansent une exacerbation des motifs de cette danse. Un bassin qui s’alanguit, puis s’ébroue, déverse et se déhanche, chaloupe et zigzague, est en fait soumis à une coordination éminemment complexe de renversements successifs entre plans contradictoires et directions multiples, articulant de manière follement riche les transactions entre suspension plus ou moins déjetée ou cambrée, en flexions et extensions, dans la sphère haute du corps, et souple élévation en fléchis ou tensions des membres inférieurs animant la sphère basse.
Ici, ces divers motifs sont isolés, dissociés, mais aussi accentués, soulignés, ordonnés en séries séquencées, et agencés en contrepoints contrastant sur des immobilisations volontaristes des jambes, ou du buste, ou de la ceinture scapulaire, parfois en positions extrêmes d’inclinaison. En-dehors de tout support musical, ces corps masculins dansant sont ainsi contaminés par une intense étrangeté. Ils sont de lianes en torsion, et de flammes sèches, tout fissurés par les corps multiples auxquels ouvre un corps dansant.
Outre cette torture infligée à la grammaire intuitive de la danse orientale, un contexte dramaturgique, parfois un brin trop narratif, tente quelques liens heureusement très fugaces avec les postures de la prière musulmane, ou la métamorphose des tissus en ceinture langoureuse, puis voile, puis cagoule supposément terroriste. De fait, si, frappée d’interdits, l’énergie de la danse déserte la vie, il est à se demander, un rien inquiet, en quelle espèce elle est susceptible de se métamorphoser. Un sourd tourment empreint Au temps où les Arabes dansaient.
Sous des lumières rasantes en contre-jour, les danseurs d’El Meddeb sont parfois déréalisés en purs dessins de silhouettes. Souvent ils montent frontalement en lignes de bord de scène, affichant un acte d’exposition corporelle, aux résonances politiques. Les quatre sujets sont vêtus à la façon d’hommes plutôt sages et mûrs, genre chemises et pantalons de flanelle, citoyens sans rien des clichés de la culture médiatique juvénile de cités.
A un moment seulement ils se mettront torses nus. Il faut s’attarder sur cela un instant. Les plateaux de danse regorgent du motif du torse nu masculin. Or, si ce motif n’est pas interrogé quant à la représentation qu’il construit sur la base des partitions de genres, alors il est à ranger au magasin si bien pourvu des motifs irréfléchis et reconduits dans la trop riche tradition de la bêtise en danse.
Les torses nus d’Au temps où les Arabes dansaient en fournissent un émouvant contre-exemple : ils s’imposent avec une totale justesse dramatique, ils recèlent toutes les contradictions du masculin, fiers mais si nus à la fois, sans rien du stupide plastron spartiate néo-béjartien. Ces bustes ballottés, déjetés, renversés en arrière, laissent aux bassins le premier plan de l’attaque, alors combien plus ambigus, troués, hantés de féminin.
Alors que son titre pouvait suggérer une culture de nostalgie identitaire, Radhouane El Meddeb produit à l’inverse une démultiplication d’altérités très contemporaines. Ces danseurs paraissent portés vers un autre eux-mêmes. Du geste arabe ils donnent à voir une production toute autre que celle attendue par le mental d’observateur occidental conventionnel. Mais que dire de la façon dont ils pourraient être perçus, en radicale altérité, par un mental d’observateur arabe conventionnel ?
Reste alors à aborder la troisième grande radicalité des options expérimentées par le chorégraphe tunisien dans cette pièce. Elle consiste à avoir confié la représentation de ces motifs de culture arabe à des interprètes qui, pour trois des quatre, ne sont pas arabes eux-mêmes. Radhouane El Meddeb explique avoir pris ce parti pour asséner l’idée que cette danse a toute qualité et légitimité à être empruntée par quiconque, à l’instar de toute autre. Nul ne s’étonnerait de voir un Arabe danser sur de la musique rock. Pourquoi pas l’inverse ?
Certes. Cet argument s’entend tout à fait. Mais sa mise en œuvre sur le plateau a surtout pour effet de dynamiter tous les attendus en matière d’assignation identitaire, dans le regard spectateur. Car enfin, alors que trois d’entre eux étaient des Pierre, Paul, Jacques, les puissances de la représentation et de ses projections mentales induites, auront fait que l’auteur de ces lignes aura bien voulu imaginer, tout au long du spectacle, que c’était bien quatre Arabes qu’il voyait sur scène. Enfin bref : que du feu. Au bassin.

Gérard Mayen

LE MONDE

20 février 2014

Les danseuses n’ont pas le monopole du ventre

Des voiles, des ventres et des nombrils… La danse orientale est une affaire de femmes. Et pourtant. Deux chorégraphes masculins, le Tunisien Radhouane El Meddeb, 44 ans, et le Libanais Alexandre Paulikevitch, 32 ans, s’en emparent avec audace. Le premier, à l’affiche du festival CDC, à Toulouse , a rassemblé quatre hommes pour le spectacle Au temps où les Arabes dansaient ; le second, au programme de la manifestation Dansfabrik, à Brest , se présente en solo dans Tajwal. L’un a opté pour le pantalon et la chemise ; l’autre, torse nu, s’enroule dans une jupe rouge et un gros ceinturon en argent.
Que ce soit deux hommes arabes qui se risquent sur ce terrain délicat n’est pas innocent. (…)

Pour Radhouane El Meddeb, qui vit à Paris depuis 1996 et s’est fait connaître dans le milieu de la danse contemporaine par des pièces minimalistes, évoquer la danse orientale est une première teintée de nostalgie. « Ce fut certainement ma première danse, et certainement aussi celle de tout Arabe, confie-t-il. Il y a eu aussi les films égyptiens des années 1940 à 1960, cet âge d’or de la création dans les pays arabes, sans condamnation ni prohibition. »

Nerf de l’affaire

Dans le contexte du « printemps arabe », se glisser dans les volutes de la danse du ventre, terme péjoratif que tous les deux rejettent mais qui cible si bien le nerf de l’affaire, devient un acte revendicateur et politique. « Le passage de régimes dictatoriaux, certes, mais éclairés, aux « démocraties », mais obscures, touche les corps, la pensée, l’art, pointe Radhouane El Meddeb. Les hommes arabes ont toujours caché leur propre féminité. Et aujourd’hui, il semble que tout le monde ait peur de bouger et de s’exprimer. D’où mon envie de mettre en avant ce bassin qui vibre ! »
A Beyrouth, Alexandre Paulikevitch, parfois insulté pendant ces spectacles assume cette danse de mauvaise répétition généralement reléguée au cabaret. « De façon plus globale, la danseuse est synonyme de prostituée, chez nous, commente-t-il. Lorsqu’en plus elle est un homme, c’est évidemment pire ! Curieusement, on n’est pas respecté mais on fascine. Cela met dans une situation contradictoire où l’on vous célèbre et vous méprise en même temps. » Alexandre Paulikevitch, dont un des amis, également interprète baladi, a failli se faire agresser dans un festival de rue, à Beyrouth, vient de signer Elgha, une pièce sauvage et belle, violemment engagée : il y évolue sous une immense barbe accrochée au-dessus de lui.
Au-delà de la séduction et de l’érotisme, la danse orientale revue par ces deux artistes veut parier sur un corps libre, bassin pulsant, sans jamais décalquer une féminité cliché. « Ras le bol de la commercialisation de la culture orientale, de ce regard folklorique que porte l’Occident sur cette danse, assène Radhouane El Meddeb. Je veux la sublimer et la désacraliser en la transmettant à des hommes, arabes ou français, peu importe. » Quant à Alexandre Paulikevitch, il donne des ateliers à « des femmes voilées, des femmes d’affaires, des lesbiennes, des hommes homos et hétéros, des étrangers, des locaux … » Pour retrouver son nombril et élargir sa vision du monde, pourquoi pas la danse orientale ?

Rosita Boisseau

L’ALSACE

Février 2014

Etat de grâce aux Vagamondes

Le chorégraphe tunisien Radhouane El Meddeb, qui avait enchanté le public de la Filature il y a deux ans avec son hommage amoureux à l’art de préparer le couscous, revient aux Vagamondes avec une nouvelle création d’une force rare. Au temps où les Arabes dansaient… , premier rendez-vous du festival vendredi soir à l’Espace Tival à Kingersheim, est un manifeste pour la liberté qui se joue des codes et des tabous.

Le ventre, l’épicentre
Le chorégraphe célèbre la beauté de la danse orientale et l’âge d’or du cinéma égyptien et brouille les genres en confiant à quatre corps masculins la gestuelle lascive de cet art réservé aux femmes, qui a pour épicentre le ventre, les hanches, le bassin des femmes, symbole du désir sexuel et de l’enfantement.

S’il s’agit d’une invitation à se souvenir d’une époque où l’Orient idéalisé était synonyme en occident de rêve, de Mille et une nuits, de paradis sensuel épicé, la pièce chorégraphique d’El Meddeb, construite âprement, est aussi un long cri, d’autant plus assourdissant que ces corps, la plupart du temps, dansent dans le silence. Un silence propice à concentrer toute l’attention sur chaque tension qui se joue, la concentration et la souffrance, l’exigence inouïe de la performance. Le regard est happé par cette lente montée en transe rythmée par les respirations de plus en plus saccadées des interprètes. Une chorégraphie qui part de l’infiniment petit, de mouvements à peine perceptibles, pour reconstituer peu à peu le puzzle d’un langage complexe, fait de déhanchements, d’ondulations douces. Des vagues successives où les danseurs évoluent dans une semi-pénombre, en fond de scène, ou sous le feu des projecteurs, à moins d’un mètre du premier rang des spectateurs. On est à la fois submergé par ce mélange de jubilation, de gravité et de malice, ému par la beauté du chant des cops, l’intensité de la construction dramatique, profondément interpellé par la pertinence de concentrer là, précisément ou se tissent les émotions humaines, à l’endroit du ventre, nos pensées bousculées.

Frédérique Meichler

LE COURRIER DE L’ATLAS

Création février 2014

Pas froid au ventre
Création A l’heure où les révolutions cherchent un second souffle. « Au temps où les Arabes dansaient », le spectacle du chorégraphe tunisien Radhouane El Meddeb, présenté ce mois-ci, se veut un vibrant hommage, dansant et filmique, aux corps en mouvement et à la liberté.

Sur scène, quatre danseurs au torse nu – des hommes – se déhanchent sur un rythme suranné. Ondulant du bassin avec une sensualité toute féminine, ils semblent possédés. Une vision oppressante, surtout lorsque le silence prend le dessus. Et puis une mélodie résonne, signant ainsi leur délivrance. Ils dansent, se lâchent, se libèrent… Mais l’obscurantisme religieux et sociétal fait à nouveau taire la musique. La frustration s’installe, et c’est la folie qui guette ces hommes écartelés entre un besoin vital de laisser leur corps s’exprimer et la pression d’une chorégraphie qui vire à la marche militaire. Et là, comme un doux rappel au passé, les images de films arabes du milieu du siècle dernier défilent, soutenues par des chants de la même époque. Nostalgie d’une abondance assumée.
A mi-chemin entre le cabaret, les danses traditionnelles et le music hall, Au temps où les Arabes dansaient, le nouveau spectacle du chorégraphe tunisien Radhouane El Meddeb, se veut une mise en abyme de notre époque à travers une esthétique de liberté. Une ode à la modernité où la dimension politique est sans cesse palpable. Et peu à peu, en effet, le souvenir revient !
Oui, il fut un temps où les Arabes dansaient, chantaient et buvaient, où les femmes fumaient sans contrainte. Une période marquante de l’histoire où le monde arabe était libre de créer et de s’autoriser quelques audaces, à l’image du cinéma des années 1950-1960, souvent égyptien, qui dévoilait sans gêne de grandes danseuses à moitié dénudées.

Se libérer des diktats
« Tous les Arabes ont rêvé à travers cet effluve cinématographique et musical », se plaît à rappeler Radhouane El Meddeb en ces temps incertains de changements brutaux. Et le résidant du Centquatre à Paris, de préciser : « Il n’y avait aucune obscénité, c’était profondément artistique ! Rien à voir avec la nudité gratuite qu’on observe aujourd’hui sur certaines chaînes de télé arabes. Je suis très content et fier de ce qui s’est passé dans mon pays récemment, mais très vite, j’ai eu peur de la monté des mentalités intégristes. J’ai l’impression qu’on recule de plusieurs siècles. »
Dans une volonté ultime d’expression, l’Orientale d’antan, symbole d’une liberté extrême, est évoquée à travers la danse, elle-même libérée des diktats du classique ou du moderne. « La danse contemporaine a permis de démonter certaines contraintes techniques et physiques afin de laisser l’artiste raconter le monde dans lequel il est », ajoute le chorégraphe.
Si Radhouane El Meddeb ressuscite un âge d’or de la culture arabe, c’est pour mieux aborder la violence de la contrainte et la possibilité d’un retour en arrière. C’est pourquoi il a choisi des hommes pour interpréter cette danse orientale gracieuse et proprement féminine, longtemps interdite aux messieurs. « Je voulais des corps masculins pour évoquer l’hypocrisie de la société arabe vis-à-vis de l’homosexualité, de la féminité, du corps… ».
Car aujourd’hui, conclut-il, « le bassin, épicentre du mouvement des tripes, devient menaçant. On est bien loin des ondulations orientales qui faisaient tant rêver ! Cette danse est une arme, une révolution. » Ce rappel ainsi fait, nous sortons de là animés d’une envie presque viscérale de crier au monde arabe : « Pour l’amour du ciel : n’arrêtez pas la musique ! ».

Nadia Sweeny

LIBERATION

Mars 2014

Séquence transe au CentQuatre
(…) Autre moment attendu, Au temps où les Arabes dansaient… (quel beau titre déjà !) est une création de Radhouane El Meddeb qui s’inscrit dans le présent pour revisiter cette nostalgie d’un « âge d’or » (en gros les années 50-60) où, « sans condamnation ni prohibition, un monde brillant, laqué et fardé » s’abandonnait à l’hédonisme des cabarets et du cinéma populaires.
Sensualité. Variation inspirée sur le thème – si hautement fantasmatique – de la danse du ventre, Au temps… fait néanmoins le choix exclusif (et partant, assez courageusement radical) d’une masculinité spécifiant d’emblée le point de vue. Rechignant à la moindre concession (hormis ce clin d’œil conclusif d’images vintage projetées en fond de scène), la pièce opte, par exemple, pour un quasi-silence pendant toute sa première moitié, qui voit quatre hommes multiplier les allers-retours en déhanchements théoriquement lascifs, mais dont on ne peut s’empêcher de noter qu’ils renvoient aussi à une contemporanéité autrement convulsive. Emprunte d’une sensualité bravache, la danse ressemble ainsi à un exutoire. Poussant les interprètes dans leurs ultimes retranchements physiques, elle n’élude pas la question de la séduction (aussi bien homo qu’hétéro, du reste), au cœur même du propos, mais dit le trouble quand, par exemple, un des interprètes ôte sa chemise trempée de sueur pour la transformer en un voile couvrant la tête d’un de ses partenaires. (…)

Gilles Renault et Marie-Christine Vernay

LES ECHOS

20 février 2014

Le nombril de la danse
Hasard des calendriers, deux artistes masculins s’emparent de la danse du ventre d’origine égyptienne pour donner à voir un autre corps, mâle celui-ci, hors norme. Radhouane El Meddeb est tunisien, installé en France où il est artiste associé du turbulent Centquatre. Venu du théâtre, il a imposé son stylé chorégraphique en quelques pièces. Libanais, Alexandre Paulikevitch est une figure du Beyrouth arty et engagé – il a notamment créé une « Laïc Pride » dans sa ville, avec la danseuse Yalda Younes. L’un comme l’autre approchent la danse du ventre et tout ce qu’elle véhicule de clichés.
Hommage au cabaret
El Meddeb voulait au départ rendre hommage au cabaret, « un monde disparu » dit-il. La danse du ventre, dans les films et dans les spectacles en était l’acmé. « Le ventre et son nombril étaient le lieu où convergeaient nos regards fascinés. » Maniant le souvenir plus que la nostalgie, le chorégraphe met en scène des hommes alignés puis qui ondulent du bassin tout en évitant la parodie. En révélant la part de féminité du danseur, Radhouane El Meddeb pointe également du doigt la dérive actuelle dans certains pays arabes où ces danses légères n’ont plus vraiment droit de cité. Et lorsqu’un interprète porte le voile l’espace d’un instant, la gravité de cette création se fait jour. (…)

Philippe Noisette

L’HUMANITE

25 Février 2014

À Toulouse, les danseurs en ont dans le ventre
Le Festival international de danse, qui a lieu jusqu’au 27 février, se concentre sur le folklore sans négliger le métissage mondial.

Le Festival international du Centre de développement chorégraphique de Toulouse a tout juste dix ans (1). Pour cette édition, Annie Bozzini, à la tête chercheuse infatigable, axe sa programmation, entre autres, sur le retour du collectif. «?Nous sommes sortis, dit-elle, de ce qu’on a appelé la non-danse. Le solo est moins présent, les petites formes aussi.?» À l’affiche en effet, des danses de groupe, non dénuées d’un certain folklore, comme si, a contrario de la circulation mondialisée de la marchandise, elles s’ancraient, elles, plus que jamais dans un temps et en un lieu donnés. «?Sauf, explique Annie Bozzini, que même les danses qu’on pense les plus nationalistes s’avèrent être des danses au sang toujours mêlé qui sont le fruit de la circulation des populations, qu’elle soit volontaire ou non.?» La création du Tunisien Radhouane El Meddeb Au temps où les Arabes dansaient est, en ce sens, un cri d’amour nostalgique adressé aux films arabes des années 1940 à 1970, «?avec leur magie, leur décor de carton-pâte, où les acteurs chantaient sans cesse, dansaient et s’aimaient sur grand écran?; la danse du ventre survenait, elle prenait sa place en acmé du film, comme son centre?».
Cachez cette sensualité qui ne saurait se voir…
«?De nos jours, poursuit Radhouane El Meddeb, la sensualité partout présente est condamnée, cachée, elle n’habite plus l’art. Le monde arabe est uni dans un enfermement nouveau, l’obscurantisme n’est pas seulement telle idéologie ou telle autre, il est strictement la fin de la lumière. Il a obstrué plus encore que les voies de l’émancipation politique, les voies de ­l’imaginaire.?»
Le ventre est donc l’épicentre du spectacle dansé par quatre hommes vêtus à l’occidental. Alignés, de face ou de dos en fond de scène, ils monopolisent durant plus d’une heure les yeux du public sur les mouvements de leur bassin. Les hanches, très sollicitées, effectuent des rotations saccadées, des ronds, des huit, qui ont à voir, de loin seulement, avec ladite danse du ventre ­féminine. C’est d’une virilité mélancolique, hargneuse par à-coups. À la fin, ils sont épuisés. «?Il faut tenir, nous confie Youness Aboulakoul – né au Maroc, il vit en France. Notre ventre doit parler de la nostalgie et dépasser la technique.?» «?Il y a de la politique dans cette ­performance physique?», ­poursuit Arthur Perole, ­danseur français de souche pied-noir.
Pour Philippe Lebhar, dont la mère est égyptienne et le père tunisien, et qui a fait ses classes avec Andy Degroat, «?nous devons montrer dans nos gestes répétitifs un cri de révolte contre l’oppression en allant au-delà de la simple mécanique?». Rémi Leblanc-Messager, qui orchestre l’avancée progressive des danseurs, explique que ces rotations cassées sont «?chargées. On ne débite pas du mouvement. Il faut y mettre des qualités de force, de haine, de nostalgie?». Mission accomplie.

Muriel Steinmetz

PARIS DANSE

2 mars 2014

Au temps où les Arabes dansaient, Radhouane El Meddeb
Quatre silhouettes se détachent de la pénombre, quatre hommes en chemise retroussée. En silence, de légers mouvements du bassin contaminent leur immobilité. Dans Au temps où les Arabes dansaient, le chorégraphe Radhouane El Meddeb s’empare des mouvements de la danse du ventre et rend hommage aux films arabes des années 1940 à 1970. Dans le fond du plateau, de petits tapis de prières composent l’unique décor. Face aux spectateurs, les quatre interprètes s’approprient les codes et les images de cette mémoire chorégraphique aux tenants historiques et culturels. Bassin, ventre, torse, épaules, bras, poignets, mains, chaque mouvement découle d’un imaginaire collectif et genré. Radhouane El Meddeb ne féminise aucunement ses danseurs, la virilité qui découle de cette chorégraphie est d’autant plus violente et viscérale qu’aucun élément figuratif n’est nécessaire. Les chemises collent à la peau. Quatre corps s’épuisent, quatre hommes transcendent et surpassent la danse. Une cigarette est allumée, elle passe de main en main et un fin nuage de fumée flotte au dessus des danseurs. Les pas se font lourds, ils battent le rythme en cadence telle une marche militaire symétrique et frénétique. Torse nu, les danseurs exposent leur peau luisante sous les projecteurs, ils brillent sous les douces lumières. Les muscles sont tendus, les ventres sont exposés, la chair comme offrande. Puis les mouvements du bassin deviennent convulsions, transe chorégraphique. El Meddeb magnifie les corps de ses interprètes, Au temps où les arabes dansaient transpire d’une énergie charnelle et salvatrice.

Wilson Le Personnic & Co